Linfoma di Hodgkin in stadio avanzato: possibile un nuovo standard di cura nel paziente anziano

Linfoma di Hodgkin in stadio avanzato: possibile un nuovo standard di cura nel paziente anziano

Il paziente anziano (età ≥ 60 anni) affetto da Linfoma di Hodgkin (LH) in stadio avanzato (stadi 3-4) ha in generale una risposta meno efficace ai trattamenti oggi adottati a causa della fragilità generale e della presenza di altre patologie concomitanti. Uno studio, presentato all’ultimo congresso dell’American Society of Hematology, ha coinvolto un totale di 97 pazienti con un’età mediana di 66 anni (range 60-83 anni) per confrontare un nuova combinazione di farmaci e verificarne la tollerabilità rispetto all’approccio standard. Scopri i risultati.

Un interessante studio, presentato all’ASH 2023, ha riguardato il trattamento dei pazienti più anziani (età ≥ 60 anni) affetti da Linfoma di Hodgkin (LH) in stadio avanzato (stadi 3-4). In ragione di una maggiore, generale fragilità, della presenza di un maggior numero di comorbidità e di una ridotta tolleranza alla chemioterapia, questa malattia si associa infatti a una minore sopravvivenza nei pazienti più anziani rispetto ai pazienti giovani. Pertanto, Il miglior trattamento in questa categoria di pazienti è ancora oggetto di dibattito.

Il presente studio rappresenta una sottoanalisi del trial SWOG S1826 e confronta il trattamento standard cosiddetto AVD, consistente nell’associazione di Doxorubicina, Vinblastina e Dacarbazina + Brentuximab Vedotin, un anticorpo monoclonale anti-CD30, abbreviato in Bv, (Bv-AVD) rispetto a Nivolumab + AVD (N-AVD), un inibitore del patwhay PD1, molto attivo nella malattia. L’obbiettivo principale dello studio era analizzare la sopravvivenza libera da progressione di malattia (PFS, progression-free survival), andando poi a valutare la sopravvivenza globale e la tossicità delle due terapie.

Un totale di 97 pazienti è stato coinvolto nello studio (48 in N-AVD e 49 in Bv-AVD), con un’età mediana di 66 anni (range 60-83 anni). Da un punto di vista della tollerabilità, il numero di neutropenie febbrili, sepsi e infezioni è risultato minore nel gruppo N-AVD rispetto a Bv-AVD, così come l’incidenza di neuropatia periferica e di sintomi gastrointestinali. Da un punto di vista dell’efficacia, con un follow-up mediano di 12 mesi, la PFS è risultata maggiore nel gruppo N-AVD, con una PFS del 93% rispetto al 64% del gruppo Bv-AVD; la mortalità da tossicità e non legata alla recidiva di malattia è risultata del 4% nel primo gruppo rispetto al 14% del secondo. Inoltre, un numero maggiore di pazienti ha dovuto interrompere la terapia nel braccio col brentuximab rispetto a quello col nivolumab, sia per progressione di malattia, sia per la comparsa di effetti collaterali.

Lo studio ha quindi concluso che in questo setting particolare di pazienti, il regime N-AVD ha dimostrato risultati migliori rispetto al Bv-AVD in termini di sicurezza e di efficacia, ponendo le basi per un nuovo standard di cura dei pazienti anziani con Linfoma di Hodgkin in stadio avanzato.

 

Fonte

Blood 2023;142 (Suppl.1):181

https://doi.org/10.1182/blood-2023-180114

PASQUA 2024

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Mieloma multiplo, quei progressi che fanno sperare nella guarigione

Questo tumore del sangue resta un «osso duro» da combattere perché comporta remissioni temporanee seguite da ricadute nella maggioranza dei pazienti, ma grazie a nuovi farmaci si allunga di anni la sopravvivenza

Se il mieloma multiplo resta una malattia difficile da guarire definitivamente, l’obiettivo di una completa eradicazione del tumore si intravede all’orizzonte. Nuove conferme in questo senso arrivano dagli studi presentati al congresso annuale dell’American Society of Hematology (Ash), in corso a San Diego (California) che dimostrano, numeri alla mano, gli importanti progressi compiuti dalla ricerca scientifica negli ultimi anni. «Quesrta neoplasia del sangue, diagnosticata ogni anno a circa 5.600 italiani, per lo più ultra 60enni, ha visto una vera rivoluzione nelle cure con l’arrivo di molti nuovi farmaci e le aspettative di vita dei pazienti sono notevolmente migliorate — dice Paolo Corradini, presidente della Società Italiana di Ematologia (Sie) —. Con le terapie precedenti la sopravvivenza si fermava, purtroppo a pochi anni (meno di 5, in media), anche perché la malattia portava sempre o quasi a recidive, mentre ora si aggira attorno ai 7-8 anni e non di rado arriva a 10».

In particolare una ricerca, esposta durante la sessione plenaria (quella riservata alle novità di maggior rilievo) del convegno statunitense da Francesca Gay, ematologa presso la Divisione di Ematologia Universitaria dell’Ospedale Città della Salute e della Scienza di Torino, fa un passo avanti verso le speranze di guarigione, indicando come con una nuova terapia si possa ottenere la remissione in una elevata percentuale di pazienti, primo passo verso il controllo a lungo termine e l’eradicazione del tumore. 

 

Innanzitutto inquadriamo la patologia: di quali pazienti parliamo? 

«Il mieloma multiplo è una neoplasia linfoproliferativa che insorge generalmente in persone d’età superiore ai 65 anni, ma che può colpire anche pazienti più giovani – risponde Gay, che ha presentato lo studio ad Ash -. La malattia, caratterizzata dall’accumulo nel midollo osseo di cellule (plasmacellule) tumorali e nel sangue di proteine (immunoglobuline monoclonali) provoca anemia, danno alle ossa con possibile comparsa di fratture e aumento del calcio nel sangue e danno ai reni, qualora non identificata precocemente e precocemente trattata». 

Quali sono le attuali cure standard? 
«Esistono già delle terapie in grado di mandare la malattia in remissione (fino a raggiungere quella che viene definita “malattia minima residua negativa”, ovvero non identificabile con le attuali metodiche di monitoraggio) e mantenere il mieloma sotto controllo per diversi anni — spiega Gay, co-autrice principale della ricerca —. Un primo elemento discriminante nel definire l’approccio terapeutico migliore sono le condizioni cliniche del paziente. Chi ha un’età fino ai 65-70 anni e una buona funzionalità d’organo (cuore, polmone, rene, fegato) viene in genere candidato a un approccio terapeutico più intensivo, che include il trapianto di midollo osseo autologo (detto anche autotrapianto, perché le cellule vengono prelevate dal paziente stesso). Il trattamento prevede una terapia (detta di “induzione”), per indurre la remissione della malattia, costituita da quattro farmaci, seguita dal trapianto, da una successiva terapia (detta “di consolidamento”) per rinsaldare la risposta e, infine, si procede a una terapia (“di mantenimento”) a basse dosi per conservare nel tempo la risposta ottenuta. I quattro farmaci cardine inclusi nella cura standard sono un anticorpo monoclonale anti CD38 (daratumumab), un inibitore del proteasoma (bortezomib), un immunomodulante (talidomide) e uno steroide (desametasone). Questi farmaci colpiscono diversi meccanismi necessari alla sopravvivenza della cellula tumorale».

Qual è il problema che si cerca di risolvere con il nuovo studio? 
« Questo studio è volto a valutare l’efficacia e la sicurezza di una nuova terapia di “induzione” e “consolidamento” in pazienti con mieloma multiplo di nuovo riscontro (cioè non pretrattati) e considerati eleggibili per il trapianto di midollo autologo — illustra la ricercatrice —. La terapia consiste sempre in quattro farmaci, che appartengono alle quattro classi cardine: un anticorpo monoclonale anti CD38 (isatuximab), un inibitore del proteasoma di seconda generazione (carfilzomib), un immunomodulante di seconda generazione (lenalidomide) e uno steroide (desametasone). È una nuova associazione di medicinali con l’obiettivo di valutare il tasso di malattia residua minima negativa (ovvero l’assenza di cellule tumorali identificate con le attuali metodiche di monitoraggio) ottenuto con il mix innovativo».

A quali conclusioni siete arrivati?
«Si tratta di una sperimentazione di fase tre (l’ultima prima dell’approvazione definitiva di una nuova cura) condotta nell’ambito dell’European Myeloma Network, che ha coinvolto più Centri europei e ha arruolato 302 pazienti. I risultati mostrano come nel 77% dei pazienti che hanno ricevuto il nuovo mix (isatuximab-carfilzomib-lenalidomide-desametasone) pre e post trapianto non si evidenzino cellule tumorali a livelli midollare (malattia minima residua negativa) a un anno circa dall’inizio della terapia. Inoltre l’efficacia si mantiene in diversi sottogruppi di malati, inclusi quelli con malattia più aggressiva. Il trial confronta direttamente questo regime a quattro farmaci con uno a tre (carfilzomib, lenalidomide e desametasone), che si è già mostrato altamente efficace. La combinazione a quattro farmaci aumenta significativamente il tasso di malattia residua minima negativa rispetto a quella a tre, senza un significativo aumento delle tossicità».

Perché è importante?
«È un regime innovativo perché utilizza quattro farmaci non ancora approvati per il trattamento di pazienti con mieloma multiplo di nuova diagnosi (ma già impiegati, con diverse associazioni, nel trattamento dei malati con neoplasia recidivata). Lo studio mostra dati molto promettenti perché riesce a raggiungere tassi di “malattia minima residua” molto elevati, in pratica arriva a eliminare tutte le cellule cancerose, con effetti collaterali ben tollerati. Sebbene sia troppo presto per trarre conclusioni relative alla durata della remissione e all’aumento della sopravvivenza, l’ottenimento della malattia residua minima negativa è considerato uno dei più forti fattori prognostici positivi per i pazienti».


Fonte “Corriere Delle Sera”
Autrice “Vera Martinella”

 

Leucemia mieloide cronica: nuovo importante studio firmato Bicocca-San Gerardo di Monza

In prossimità della Giornata Mondiale della Leucemia Mieloide Cronica del 22 settembre, arrivano importanti novità dal team di ricerca coordinato dal professor Gambacorti Passerini di Milano-Bicocca e Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza.

La Leucemia Mieloide Cronica (LMC) è una forma di leucemia che grazie all’avvento di farmaci specifici (inibitori di tirosino chinasi) è passata da una aspettativa di vita di 2-3 anni ad una identica a quella della popolazione generale. Questo fatto ha determinato un continuo aumento del numero dei pazienti affetti da questa malattia, che è stimato a circa 2 milioni nei paesi sviluppati.

In presenza di una risposta ottimale, definita come almeno 4 anni di terapia e presenza di un residuo minimo di cellule leucemiche (meno di 1/10.000) è usuale proporre al paziente di sospendere la terapia. È noto che circa la metà dei pazienti devono riprendere la terapia a causa della recidiva della LMC, ma la pratica della sospensione è comunque sicura in quanto la ripresa della terapia porta ad una nuova remissione in praticamente tutti i pazienti. Sono stati tuttavia descritti alcuni casi in letteratura nei quali la sospensione della terapia si è associata ad una progressione della LMC, alla sua evoluzione in una leucemia acuta, e in alcuni casi anche alla morte del paziente. Queste descrizioni di singoli casi non permettono però di quantificare il rischio di questo drammatico evento.

Sono stati recentemente pubblicati sulla rivista American Journal of Hematology i risultati dello studio TFR-PRO.

Questo studio, iniziato nel 2017 e coordinato dal professor Carlo Gambacorti Passerini, professore di Ematologia presso l’Università Milano-Bicocca e direttore della Struttura complessa di Ematologia presso la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza, ha arruolato 906 pazienti affetti da LMC seguiti in centri italiani, francesi, tedeschi, spagnoli e canadesi.

I pazienti dovevano essere candidabili alla sospensione della terapia e sono stati seguiti indipendentemente dalla loro decisione se sospendere o no la terapia stessa. Circa il 40 per cento di essi non ha in effetti sospeso la terapia mentre il 60 per cento lo ha fatto. Dopo un tempo di monitoraggio mediano dei pazienti superiore a 5 anni e oltre 5000 anni di follow up disponibili, è stato registrato 1 unico caso di progressione di malattia in un paziente tedesco di 45 anni: una frequenza di circa 1 caso su 1000, e che per di più si è verificato nel gruppo di pazienti che non aveva sospeso la terapia.

Questi dati permettono di concludere che nei pazienti con risposta ottimale, la progressione della LMC rappresenta un evento molto raro ma possibile, nell’ordine tra 1/10.000 e 1/1.000, ma che non è legato alla sospensione della terapia.

Questi risultati inoltre indicano la grande importanza della assunzione regolare della terapia prima della sua sospensione, e di un monitoraggio ottimale da parte del medico dopo la sospensione.

PASQUA 2023

Pasqua 2023

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INSIEME NELLA COMUNICAZIONE: PILASTRI DI UN PONTE NELLA CURA

 

 Siamo molto felici di riportarvi quanto abbiamo pensato di presentare, sotto forma di relazione congressuale co-condotta a “tre voci”, al Corso Residenziale organizzato dalla dott.ssa Lorenza Borin all’interno dell’Ospedale San Gerardo ASST Monza: “Le Parole nella Cura del Paziente”.

 

All’evento sono intervenuti specialisti di diverse discipline che concorrono quotidianamente al benessere del paziente (medici, psicoterapeuti, infermieri afferenti a Reparti dedicati a diversi ambiti d’intervento: Ematologia Pediatrica ed Adulti, Oncologia, Cardiologia, Terapia Intensiva, etc) con l’intento di confrontarsi su come sia adeguato porsi nel comunicare con il paziente ed i suoi familiari.

Per questo motivo, i temi introduttivi di riferimento alla “buona comunicazione” sono stati riportati dalla Prof.ssa Maria Grazia Strepparava della Psicologia Clinica del San Gerardo, mentre la dott.ssa Lorenza Borin ha mediato i diversi contributi portati dai relatori. Tra cui la nostra relazione  che ora vi alleghiamo per rendervi partecipi al tema, caro a tutti, della comunicazione tra operatori Sanitari e Paziente/Familiari.

Nello specifico il nostro contributo si è incentrato sulla necessità di curare la buona comunicazione con il paziente a partire da una buona comunicazione tra Operatori che lavorano insieme in equipe multidisciplinare (medici, infermieri,,OSS, psicologi, fisioterapisti, nutrizionisti, etc)

 
 

 

Noi siamo partite dall’evidenza che in tutti gli ambiti interattivi, di scambio d’informazioni, di comunione d’intenti è la volontà d’incontrarsi, capirsi, relazionarsi con l’altro, a determinare la riuscita della comunicazione.
Questo assunto vale sia in ambiti clinici di comunicazione al paziente e
ai suoi familiari, che in sede di equipe multidisciplinare integrata. L’‘amalgama relazionale’ che si viene a creare tra chi sta interagendo determina infatti le modalità di comunicazione con l’Altro e la sua riuscita. Ciascuna presa in carico del paziente richiede dunque un buon grado di flessibilità,
da parte degli Operatori sanitari, verso diverse variabili cliniche e
personologiche con cui si entra in relazione nell’atto di cura.

Si potrebbe meglio dire che comunicare coincide sempre con l’accettare che l’Altro sia “Altro da Sé”.
Qualcuno da conoscere nelle sue modalità espressive, concettuali e
personologiche, qualcuno da rispettare ed ascoltare oltre che “riempire”
di parole, concetti o informazioni. Questa attenzione alla matrice
relazionale della comunicazione è preziosa in qualunque contesto ma a
maggior ragione in ambito sanitario, di cura. Ciò vale nella relazione a
due tra Operatore Sanitario e Paziente/Familiare che nella relazione
che gioco forza si crea tra il Paziente/Familare e l’intera Equipe
Multidisciplinare.

Sono tante le figure professionali che devono supportare il paziente o i suoi familiari durante il percorso di cura e per questo motivo, in una equipe ideale, ciascun operatore dovrebbe tutelare un tipo di comunicazione empatica con l’utenza che risulti lineare, coerente e chiara, a partire dall’accordo interno all’équipe stessa.

L ‘amalgama relazionale’ tra le diverse figure curanti deve dunque creare le basi per una buona comunicazione interna, prerequisito stesso alla comunicazione poi con l’utenza.

Prima dell’attenzione posta sul “come e quando comunicare al paziente”, deve essere posta attenzione al “come e quando comunicare all’interno dell’équipe multidisciplinare”, tra le diverse figure professionali in campo (medici ematologi, trapiantologi, infermieri, OSS, psicologi, nutrizionisti, fisioterapisti, etc) e le loro differenti competenze.

 

Ciascuna presa in carico mira infatti a creare un ponte che accompagni il paziente e la sua famiglia verso la sponda opposta al disagio e alla malattia. Nessun ponte però vede il proprio peso sorretto da un solo pilastro. Tutti i pilastri sono portanti. Motivo per cui, in equipe, ciascun Operatore deve percepire l’Altro, il collega, lo specialista di un’altra funzione, altrettanto indispensabile e necessario, qualcuno con cui collaborare e confrontarsi in itinere sulla cura e sulla comunicazione in atto con il paziente ed i suoi familiari.

Dall’osservazione dei Codici Deontologici di più professioni coinvolte nella cura, è evidente lo stesso mandato a riguardo della comunicazione. Per gli Psicologi la comunicazione è lo strumento principe del proprio intervento supportivo ed è dunque evidenziato attraverso numerosi articoli del proprio Codice Professionale, ma allo stesso modo le professioni sanitarie ne sottolineano ora l’importanza.

Codice Deontologico Medici:

 

Codice Deontologico Infermieri:

 

ART 20 – […] nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura.

 

ART 4 – […] Stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo. Si fa garante che la persona assistita non sia mai lasciata in abbandono coinvolgendo, con il consenso dell’interessato, le sue figure di riferimento, nonché le altre figure professionali e istituzionali. Il tempo di relazione è tempo di cura

.

ART 33 – […] garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura. Adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza. Rispetta la necessaria riservatezza dell’informazione e la volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione, riportandola nella documentazione sanitaria.

ART 15 – […] Partecipa al percorso di cura e si adopera affinché la persona assistita disponga delle informazioni condivise con l’equipe, necessarie ai suoi bisogni di vita e alla scelta consapevole dei percorsi di cura proposti.

ART 66 – […] si adopera per favorire la collaborazione, la condivisione e l’integrazione fra tutti i professionisti sanitari coinvolti nel processo di assistenza e di cura, nel rispetto delle reciproche competenze, autonomie e correlate responsabilità.

 

ART 15 – […] Partecipa al percorso di cura e si adopera affinché la persona assistita disponga delle informazioni condivise con l’equipe, necessarie ai suoi bisogni di vita e alla scelta consapevole dei percorsi di cura proposti.

 

ART 17 – […] Valorizza e accoglie il contributo della persona, il suo punto di vista e le sue emozioni e facilita l’espressione della sofferenza. L’Infermiere informa, coinvolge, educa e supporta l’interessato e con il suo libero consenso, le persone di riferimento, per favorire l’adesione al percorso di cura e per valutare e attivare le risorse disponibili.

 

ART 19 – […] garantisce e tutela la confidenzialità della relazione con la persona assistita e la riservatezza dei dati a essa relativi durante l’intero percorso di cura.

 

ART 20 – […] rispetta la esplicita volontà della persona assistita di non essere informata sul proprio stato di salute.

 

ART 21 – […] sostiene la relazione con la persona assistita che si trova in condizioni che ne limitano l’espressione, attraverso strategie e modalità comunicative efficaci.

 

 

Dalla maggiore ricchezza di articoli presenti nel Codice Deontologico infermieristico si evince perchè l’infermiere risulti, tra le figure di riferimento sanitarie, l’“attore principale” del percorso assistenziale. Rappresenta infatti un punto di riferimento e sostegno per il paziente ed il caregiver nelle varie fasi del continuum clinico assistenziale. Riveste un ruolo educativo e di counseling fondamentale per aiutare il paziente a partecipare alle scelte terapeutiche in modo consapevole e contribuisce allo sviluppo del suo empowerment. L’assistenza infermieristica deve poter risultare preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa, mantenendo la natura tecnica, relazionale ed educativa in ciascun ambito di cura, a maggior ragione in contesti correlati a terapie a forte impatto come quelle utilizzate in Ematologia.

L’infermiere favorisce il mantenimento delle relazioni sociali e familiari, ascolta la persona assistita con attenzione e disponibilità; sta vicino al paziente quando soffre e quando ha paura, quando la medicina e la tecnica non bastano.
(Patto infermiere – cittadino 1996)

In Ematologia infatti la degenza media, per ricoveri di cura o per un trapianto di midollo osseo, è molto più lunga rispetto quella mediamente necessaria per altre cure o altre patologie. La lungodegenza ematologica impone inoltre, come del resto accade per le indicazioni date in regime ambulatoriale, un importante cambiamento sociale.

Periodi prolungati d’isolamento sociale (negli ultimi due anni drasticamente imposto anche dalle norme Anti-COVID) finiscono dunque con il rendere ancora più pesante l’iter di cure necessario alla guarigione, accentuando una sofferenza emotiva mossa dalle preoccupazioni dell’arrivo stesso della malattia. Le prescrizioni sanitarie, così come la presa in carico ematologica o l’inizio stesso delle cure, causano un cambiamento di vita repentino ed inaspettato, causando spesso un forte trauma nel paziente e nei suoi familiari.

 

La preoccupazione per la diagnosi o l’esito delle cure, così come la percezione diversa di sé, del proprio corpo, della propria immagine anche familiare e sociale, rendono particolarmente sensibile e sofferente la psiche del paziente ed il clima ora vigente in famiglia. L’evidenza di tanta sofferenza fisica ed emotiva da parte del paziente e dei suoi famigliari, deve indirizzare l’Equipe curante , da parte di tutti gli Operatori Sanitari, nell’utilizzare uno stile comunicativo accogliente/empatico, oltre che informativo/operativo. E deve inoltre sensibilizzare ad un corretto utilizzo delle risorse psicologiche presenti sul campo (psiconcologi, psicoterapeuti, psichiatri, etc) che a volte rischiano di venire attivati solo dopo evidenti segnali di sofferenza emotiva e non in termini preventivi o collaborativi di base.

 

Con il termine “Empatia” stiamo dunque evidenziando quella abilità professionale che l’equipe curante, nella sua interezza, dovrebbe adottare cercando di comprendere e conoscere il mondo interiore del paziente, riuscendo così a leggere tra le righe ciò che ci viene raccontato.

 

La relazione empatica dà vita a una comunicazione che è soprattutto condivisione (“le tue paure sono giuste, ma le affrontiamo insieme”) così come l’ascolto empatico può permettere ai diversi Operatori (ematologi, infermieri, OSS etc) di comprendere meglio il vissuto del paziente (ascoltare senza interrompere, rispettare pause e silenzi dell’Altro, incoraggiarlo nella libera espressione di sé).

Tutto ciò contribuisce a creare una relazione di fiducia tra il paziente, la sua famiglia e i curanti. La malattia tende infatti a mettere in crisi la fiducia che ogni persona ha di se stessa e nelle proprie capacità di far fronte alle difficoltà; e dunque non può che aumentare la necessità di potersi fidare degli altri. La relazione d’aiuto tra equipe multidisciplinare e-paziente dovrà dunque primariamente rispondere, in senso rassicurante, a questo bisogno di fiducia, fornendo sostegno alla richiesta di ricevere aiuto ed assistenza in caso di necessità, specialmente in casi in cui, in precedenza, si siano vissute esperienze di cura di tipo fallimentare.

Gli elementi che maggiormente concorrono a fondare la fiducia sono:

 

– una comunicazione efficace;
– l’utilizzo comunicazione non-verbale e para-verbale;
– la disponibilità all’ascolto unitamente alla coerenza nelle proprie azioni e parole.

 

La fiducia comincia infatti nei primi contatti che il paziente ha con i suoi curanti ed accresce via via che l’impegno nel rapporto viene provato e verificato. Il coinvolgimento attivo del paziente, al fine di garantire che i suoi bisogni, le sue preoccupazioni siano articolati nella relazione, è poi un punto a favore della comprensione stessa delle scelte di cura proposte o della metodologia seguita a livello assistenziale. Tutto ciò concorre inoltre a creare una solida alleanza terapeutica tra curanti, pazienti e familiari, anche nei momenti più difficili della cura e della comunicazione.

 

Questo assunto di base ha spinto la nostra equipe trapiantologica (CTA dell’U.O. Ematologia dell’Ospedale San Gerardo ASST Monza) ad organizzare colloqui informativi pre-trapianto in cui si potessero convogliare le diverse competenze comunicative ed empatiche di ciascuna figura curante coinvolta nella lungodegenza del paziente. A fronte di questo Progetto l’evidenza che molti pazienti prossimi ad  affrontare la lungodegenza in CTA (Centro Trapianti Adulti) si presentavano con molti dubbi, molte domande, tante incognite circa ciò che avrebbero dovuto affrontare. Attraverso un progetto formativo si è deciso allora di creare un gruppo di lavoro che si occupasse dei colloqui pre trapianto. Un momento che potesse venire organizzato prima del ricovero in CTA e in compresenza di parte dell’equipe multidisciplinare (medico, infermiere, psicologa) al fine di informare il paziente ed accompagnarlo all’acquisizione del consenso informato, realmente informato (educazione sanitaria). Un momento strutturato dedicato interamente a Lui e al suo caregiver/familiare, con l’intento di metterli a proprio agio di fronte a nuove figure curanti e fargli cogliere l’obiettivo comune di tutta l’equipe volta alla guarigione.

 

Il colloquio pre-trapianto si pone dunque come apice di un percorso di cura sostenuto da più professionisti dedicati al paziente e alla sua famiglia, in continuità con quanto fatto in precedenza dalle equipe multidisciplinari del DH Ematologico e del Reparto. La turnazione lavorativa di medici ed infermieri tra Reparto e CTA, così come la presenza della medesima figura psicologica di supporto durante la degenza, consente spesso di poter creare una certa continuità di percorso, un livello di conoscenza pregressa che apporta subito sollievo al paziente e ai famigliari, sulla scorta di un buon rapporto di fiducia presente alla base. Ad ogni modo, per maggiore chiarezza d’informazioni, l’intera equipe multidisciplinare del CTA ha progettato una brochure esplicativa che lasci traccia di quanto detto durante il colloquio pre-trapianto. Questo viene consegnato al paziente insieme ad uno schema grafico che riporta le tempistiche richieste dalla preparazione al trapianto, il suo svolgimento, l’attecchimento, la risalita dei valori, il rientro a casa dal CTA e la gestione successiva elle visite in DH.

A fine relazione al Corso Residenziale abbiamo presentato questa brochure e la linea grafica temporale d’intervento, nonché raccontato, tutelando l’anonimato dei protagonisti, il beneficio riportato dai nostri pazienti nel momento di dimissione ospedaliera e sul finire del lungo percorso di cure oncoematologiche.

A cura di
Dott.ssa Antonella Amà – Psicologa Psiconcologa Associazione Luce e Vita
Dott.ssa Chiara Coghi – Infermiera ASST Monza Ospedale San Gerardo
Dott.ssa Erika Tagliareni – Infermiera ASST Monza Ospedale San Gerardo

LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA – LMA

La leucemia è una neoplasia ematologica (tumore del sangue) che si sviluppa nel midollo osseo, nel sangue, nel sistema linfatico e in altri tessuti. Le leucemie sono comunemente distinte in acute e croniche, a seconda della velocità di progressione della malattia.

In generale, si parla di leucemia in presenza di alterazioni biologiche nelle cellule del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) che provocano una crescita e una proliferazione incontrollata delle cellule stesse. Il nome leucemia deriva dalla parola greca leucos = bianco proprio perché la malattia ha inizio nei globuli bianchi, le cellule incaricate di combattere le infezioni, che normalmente si riproducono secondo le necessità dell’organismo.

Nei pazienti affetti da leucemia, il midollo osseo produce un elevato numero di globuli bianchi anomali, che presentano mutazioni genetiche nel DNA e che non funzionano correttamente. Le cause di questa malattia non sono ancora note con esattezza, ma sembra che vi siano implicati sia fattori genetici sia ambientali.

La leucemia acuta origina dal midollo osseo, la sede in cui risiedono i progenitori (cellule immature) delle cellule del sangue e dove queste stesse cellule giungono a maturazione prima di “uscire” dal midollo osseo ed entrare nella circolazione sanguigna. Il termine “acuta” si riferisce alla rapida progressione della malattia.

Quando nel midollo osseo alcune di queste cellule immature vanno incontro a gravi alterazioni genetiche , cominciano a proliferare in maniera non controllata spesso ostacolando lo sviluppo delle cellule normali. La comparsa dei sintomi è molto precoce, fin dalle prime fasi di inizio della malattia, tanto che in alcuni casi può essere fatale (in poche settimane o qualche mese) se non si interviene in tempi brevi con le terapie del caso. Ciò nonostante, una buona parte di leucemie acute, soprattutto in soggetti giovani, può essere curata e guarita.

Le leucemie acute si dividono in due principali gruppi: la leucemia linfoblastica acuta (LLA) e la leucemia mieloide acuta (LMA).

La leucemia mieloide acuta colpisce con maggior frequenza gli adulti, e la sua incidenza cresce proporzionalmente con l’aumento dell’età.

Cause e fattori di rischio

La LMA è una malattia molto eterogenea, sia dal punto di vista clinico che dal punto di vista del profilo biomolecolare. Come in molte altre patologie non sono chiare le cause che originano una LMA e in questi casi la malattia viene definita come LMA primaria.
Esistono però dei fattori di rischio conosciuti, come l’esposizione a radiazioni ionizzanti, agenti chimici tossici (es. fumo/benzene) o la presenza di rari disordini genetici predisponenti (la sindrome di Down, la trisomia dell’8, l’anemia di Fanconi, la sindrome di Bloom, l’atassia teleangiectasia, la sindrome di Blackfan-Diamond, la sindrome di Schwann, la sindrome di Li Fraumeni, la Neurofibromatosi 1, neutropenia congenita severa anche chiamata sindrome di Kostmann), che se presenti nella storia clinica del paziente fanno catalogare la malattia come LMA secondaria.
È inoltre possibile che la malattia si sviluppi a distanza di qualche anno da trattamenti chemioterapici o radioterapici, o che sia il frutto dell’evoluzione di una precedente malattia ematologica (Sindrome Mielodisplastica o Sindrome Mieloproliferativa). Dal punto di vista molecolare la malattia è molto complessa e caratterizzata da numerosi danni genetici che cooperano per lo sviluppo della patologia. Nonostante tutto non è stato ancora identificato un unico fattore come responsabile diretto della LMA.

Incidenza

La LMA ha un’incidenza stimata in circa 3-4 casi per 100.000 persone per anno ma, essendo una malattia tipica dell’età avanzata (età media 60 anni), può arrivare anche a circa 10 casi per 100.000 persone per anno nella popolazione al di sopra dei 65 anni (70% dei casi totali). La LMA si può presentare anche in età pediatrica, ma è decisiva la presenza di difetti genetici come, ad esempio, la sindrome di Down che aumenta il rischio di sviluppare la malattia di oltre 10 volte.

Sintomi

Questi sono i sintomi più comuni associati alla leucemia mieloide acuta:

  • perdita di peso, stanchezza, febbre, sudorazioni notturne, inappetenza.
  • mancanza di fiato, giramenti di testa, ipersensibilità al freddo, tachicardia
  • aumentato rischio di sanguinamenti (epistassi, sanguinamento gengivale)
  • aumentato rischio di infezioni

 

Trattamenti

Quasi la totalità dei pazienti con leucemia mieloide acuta devono essere sottoposti ad una terapia. Il piano terapeutico dipende da diversi fattori tra cui:

  • età del paziente e le condizioni cliniche
  • sottotipo di LMA
  • presenza di malattia nel sistema nervoso centrale
  • presenza di gravi infezioni alla diagnosi 
  • storia di precedente mielodisplasia o di precedenti terapie radio-chemioterapiche

Nella maggior parte dei casi il trattamento di scelta è rappresentato dalla chemioterapia secondo schemi inseriti nell’ambito di protocolli clinici condivisi da numerosi centri di Ematologia con esperienza nel campo della cura delle leucemie acute. La terapia si distingue in intensiva e conservativa.

Nei pazienti con età maggiore di 60-65 anni la chemioterapia intensiva ha spesso risultati inferiori rispetto ai più giovani. Questo è in relazione sia ad una maggiore frequenza di caratteristiche biologiche più aggressive rispetto alle leucemie dei soggetti più giovani, sia ad una maggiore fragilità clinica dei soggetti più anziani. nonostante ciò, sulla scorta dei risultati clinici fino ad oggi disponibili, la possibilità di porre l’indicazione per una chemioterapia intensiva va sempre presa in considerazione anche nei soggetti di età maggiore di 60-65 anni, previa un’attenta ed approfondita valutazione delle caratteristiche della leucemia e del paziente.

La chemioterapia intensiva molto spesso abbina almeno due chemioterapici allo scopo di ottenere la remissione completa di malattia. Quella conservativa ha l’obiettivo di attuare un controllo temporaneo della progressione della malattia senza cercare la remissione completa e prevede solitamente l’uso di un solo chemioterapico. La terapia della leucemia mieloide acuta prevede:

Chemioterapia

Ha lo scopo di eliminare le cellule leucemiche presenti nel midollo osseo e nel sangue così da permettere alle cellule immature normali residue del midollo di crescere e maturare per produrre cellule normali del sangue. Nella terapia intensiva i chemioterapici sono somministrati per via endovenosa, nella terapia conservativa possono essere somministrati anche per bocca. La chemioterapia intensiva viene somministrata in regime di ricovero, durante il quale il paziente viene sottoposto ad uno stretto monitoraggio dei valori dell’emocromo che raggiungono livelli molto bassi sia di globuli bianchi, sia di rossi e piastrine (fase di aplasia). La fase di aplasia può complicarsi con infezioni talora gravi che richiedono una complessa terapia antibiotica. La fase iniziale della chemioterapia intensiva viene denominata chemioterapia di induzione mentre le fasi successive chemioterapia di consolidamento e/o di mantenimento. Nella larga maggioranza dei protocolli clinici la chemioterapia di induzione si basa sull’associazione di 2 chemioterapici, un‘antraciclina (va ricordato che le antraciclinie furono scoperte in Italia) e la citarabina. La chemioterapia di consolidamento e/o di mantenimento possono avere modalità leggermente diverse in base ai diversi protocolli clinici. Al termine della chemioterapia di induzione ed in alcuni casi anche delle terapie di consolidamento/mantenimento, vengono ripetute alcune analisi sul midollo osseo e sul sangue periferico per definire la risposta al trattamento

Catetere venoso

Data la necessità di utilizzare molto frequente la via di somministrazione endovenosa, in particolare nella terapia intensiva, si posiziona di un catetere venoso centrale (CVC) in una vena del collo o sotto la clavicola. Il catetere è solitamente “tunnellizzato” ovvero una sua piccola porzione decorre sottocute prima di entrare nella vena succlavia, allo scopo di garantire una prolungata permanenza, una pronta accessibilità agli operatori e una più bassa incidenza di infezioni. Grazie al catetere venoso centrale vengono facilitati i prelievi di sangue, le trasfusioni di sangue e l’infusione di chemioterapici e antibiotici.

Trasfusioni

A seguito della chemioterapia, i valori dell’emocromo scendono spesso a livelli molto bassi prima che le cellule normali del sangue ricomincino a crescere. In questa fase è molto frequente che i pazienti debbano ricorrere a trasfusioni di globuli rossi e di piastrine. In Humanitas l’Unità Operativa di Ematologia ha maturato un’adeguata esperienza nella gestione delle complicanze della fase di aplasia post-chemioterapica nella cura delle leucemie acute.

Risposta al trattamento

Se la chemioterapia di induzione ha successo, il paziente ottiene la remissione completa della malattia. I valori dell’emocromo tornano nella norma (o quasi), il numero di cellule leucemiche (blasti) all’analisi morfologica del midollo osseo è <5% ed il paziente è solitamente in grado di lasciare l’ospedale. Le terapie di consolidamento/mantenimento hanno lo scopo di mantenere la remissione completa il più a lungo possibile, e fino al trapianto per coloro che possono essere avviati a tale procedura. La durata della chemioterapia e l’indicazione al trapianto dipendono dal tipo di leucemia, dalla sua categoria di rischio e dalle condizioni del paziente.

Trapianto di cellule staminali emopoietiche

Fino a 65 anni di età, i pazienti affetti da LMA possono essere candidati al trapianto di midollo. Il trapianto di midollo autologo (ovvero utilizzando le proprie cellule staminali emopoietiche) trova limitate indicazioni nella LMA.

Il trapianto allogenico (ovvero utilizzando le cellule staminali emopoietiche di un donatore sano) trova piena indicazione per tutte le leucemie acute ad alto rischio che raggiungono la remissione completa. La decisione di candidare un paziente con leucemia al trapianto autologo o allogenico è in relazione al tipo di leucemia, alla sua categoria di rischio, all’età del paziente, alle sue condizioni cliniche e si accompagna sempre ad un approfondito colloquio con i medici dell’Unità Trapianto su potenziali rischi e benefici. Le leucemie a buona prognosi non vengono mai candidate al trapianto, a meno che nel corso del trattamento si assista ad una ricaduta della malattia o la risposta venga giudicata insoddisfacente o incompleta.

Il trapianto allogenico resta l’unica arma in grado di offrire una speranza di guarigione anche in leucemie in fase avanzata o refrattarie ai trattamenti convenzionali. Humanitas ha maturato un’adeguata esperienza in campo trapiantologico, è accreditato per il trapianto da donatore non consanguineo ed offre la possibilità del trapianto da sorgenti alternative come cordone ombelicale e donatore familiare aploidentico o parzialmente compatibile.

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PASQUA 2022

Pasqua 2023

La sorpresa più bella è scoprire la gioia di donare

Quest’anno, per Pasqua, regala le nostre uova solidali contro le leucemie e le malattie ematologiche!

L’offerta è libera a partire da 10 euro, le uova sono da 350 gr e sono disponibili nelle varietà fondente e al latte.

Per ordinare le uova, contatta la nostra segreteria al numero di telefono 039/2333265 o all’indirizzo email segreteria@luceevita.it.

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Uova di Pasqua al latte 350 gr.

Contributo di: 10,00€

Il tradizionale Uovo di Pasqua dell’Associazione Luce e Vita nella versione con
cioccolato al latte e dal peso di 350g.
L’incarto
sarà di colore giallo con bel fiocco verde e all’interno è presente una
sorpresa.

Se prevedete ordini tra amici, parenti, colleghi di quantitativi ingenti, vi informiamo che le Uova di Pasqua da 350g sono inserite in scatole da 8 pezzi.

Uova di Pasqua al fondente 350 gr.

Contributo di: 10,00€

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L’incarto sarà di colore verde con bel fiocco giallo e all’interno è presente una sorpresa.

Se prevedete ordini tra amici, parenti, colleghi di quantitativi ingenti, vi informiamo che le Uova di Pasqua da 350g sono inserite in scatole da 8 pezzi.

Competenze Infermieristiche in Ematologia: realtà attuale e prospettive di sviluppo

Lo scorso 9 febbraio si è tenuto il corso di formazione per Infermieri di Ematologia “Le Competenze Distintive dell’Infermiere di Area Ematologica: realtà attuale e prospettive di sviluppo”.

L’evento ha visto la collaborazione e la partecipazione attiva, oltre che degli Infermieri dell’Ematologia Adulti dell’Ospedale San Gerardo di Monza, anche degli Infermieri dell’Ematologia dell’Ospedale Niguarda di Milano (dott.ssa Paola Santa Galafassi e dott.ssa Gianpiera Lanzo) e dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (dott.ssa Giorgia Gobbi); si è svolto nell’arco dell’intera mattinata, con una serie di interessanti relazioni su argomenti specifici dell’Assistenza Infermieristica al paziente onco-ematologico.

È stata un’occasione importante per porre l’attenzione su un argomento per noi essenziale.

Essere Infermieri in Ematologia presuppone il possesso di Competenze che spesso non si riscontrano in altri ambiti dell’assistenza infermieristica. Come constatato nel quotidiano delle nostre attività, l’Ematologia è un’area clinica molto specifica sia per la varietà delle patologie che essa tratta, sia per gli interventi assistenziali-terapeutici da mettere in atto.

Il corso di formazione ha permesso di definire e descrivere al meglio quali sono le Competenze che l’Infermiere di Ematologia debba possedere, al fine di poter garantire un’assistenza infermieristica di qualità ai suoi pazienti.

Chi è il paziente onco-ematologico? La risposta a questa domanda permette di introdurre le esatte modalità di approccio alla persona, punto di partenza da cui muove la messa in atto di tutte le Competenze Infermieristiche.

Il paziente onco-ematologico è complesso nelle sue condizioni cliniche, fragile nel suo stato psicofisico, imprevedibile e instabile in relazione all’evoluzione della sua malattia e delle problematiche di salute ad essa connesse; le Competenze Infermieristiche nella valutazione delle sue condizioni, in maniera costante e sempre attuale, sono fondamentali e prevedono la messa in pratica di conoscenze globali. Si tratta di Competenze non prettamente tecniche, ma che includono anche l’aspetto relazione-emotivo fin dalle prime fasi di approccio.

Al momento della comunicazione della diagnosi di malattia e della proposta terapeutica, il saper comunicare in maniera adeguata quanto accade e quanto accadrà fornisce un rinforzo positivo al paziente, che in quanto tale si sentirà rassicurato e adeguatamente informato circa la “nuova vita” che questi dovrà affrontare, dapprima in Ospedale e poi al domicilio dopo la dimissione. Molta importanza deve essere data all’aspetto relazionale-educativo soprattutto in quelle condizioni, purtroppo frequenti, in cui al paziente manca un adeguato sostegno familiare e sociale.

Per i pazienti affetti da malattia onco-ematologica, le infezioni costituiscono uno dei principali rischi di aggravamento dello stato di salute. Oltre al saper educare il paziente circa gli accorgimenti igienico-sanitari che questi deve mettere in atto sulla sua persona (frequente igiene personale, con particolare attenzione all’igiene della bocca e delle parti intime, cura della cute, adeguata alimentazione, ecc…), sono importantissimi gli interventi che l’Infermiere deve saper attuare al fine di azzerare ogni rischio. A tal proposito, l’igiene delle mani è una misura tanto semplice quanto essenziale, che viene eseguita sempre prima e dopo qualsiasi contatto col paziente onco-ematologico, oltre che prima e dopo tutta una serie di situazioni assistenziali specifiche.

La prevenzione di qualsiasi rischio di natura infettiva prevede anche un’adeguata cura e gestione degli accessi venosi vascolari, motivando lo stesso paziente ad averne adeguata cura al momento della dimissione al domicilio.

Qualunque strategia educativa si basa sull’alleanza terapeutica tra Operatori Sanitari, pazienti e familiari.

I trattamenti terapeutici delle malattie ematologiche prevedono l’utilizzo frequente di farmaci chemioterapici che, come è noto, sono essenziali nella lotta alla malattia, ma di contro posso dare diversi effetti collaterali.

Nausea e vomito, oltre che perdita di capelli, sensazione di fatica e debolezza, stitichezza o diarrea, sono i sintomi prevalentemente associati alla chemioterapia. La corretta somministrazione di farmaci specifici può contenere la tossicità dei chemioterapici, al fine di evitare ulteriori complicanze derivanti dal persistere dei disturbi sopracitati. Un momento educativo importante si basa anche sul consigliare ai pazienti, sia durante i trattamenti che subito prima o subito dopo, di evitare cibi che possano favorire disturbi gastro-intestinali, non consumando cibi irritanti o dai sapori piuttosto forti.

Alla chemioterapia tradizionale si affiancano ulteriori strategie terapeutiche, quali il trapianto di cellule staminali emopoietiche o l’infusione di cellule CAR-T.

Il trapianto di cellule staminali emopoietiche è una delle procedure esclusive dell’Area Ematologica; l’Infermiere che si occupa del paziente onco-ematologico sottoposto a trapianto di cellule staminali possiede delle Competenze adeguate al fine di gestire al meglio sia la procedura in sé, ma anche tutte le complicanze connesse al trapianto.

Le accortezze che vengono messe in atto per i pazienti sottoposti al trapianto di midollo cominciano soprattutto dalla sterilità delle camere di degenze, singole per i pazienti sottoposti a trapianto allogenico. Viene accentuata l’importanza degli accorgimenti di natura igienica per i pazienti sottoposti a trapianto, al fine di evitare situazioni di notevole rischio infettivo.

Saper individuare in tempo le complicanze precoci o tardive del trapianto di midollo osseo, tra cuila Graft-versus-Host-Diseas (GvHD) e la Veno Occlusive Disease (VOS), rientra tra le Competenze principali dell’Infermiere di Trapianto; la corretta gestione e risoluzione di queste segna un passaggio decisivo verso la completa ripresa del paziente.

Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha permesso di mettere a punto un’ulteriore strategia terapeutica per la lotta ad alcuni tipi di malattia onco-ematologica; è il caso delle cellule CAR – T, il cui utilizzo terapeutico si colloca nel contesto di un trattamento in cui i linfociti T prelevati da un paziente vengono reinfusi nell’organismo di quest’ultimo, dopo essere stati trattati al fine di rendere ancor più efficace e specifica l’azione contro la patologia in atto.

L’utilizzo delle cellule CAR-T si colloca entro specifici parametri clinici e il saper individuare e trattare per tempo le reazioni infiammatorie importanti derivanti dalla loro infusione rientra tra le nuove Competenze richieste all’Infermiere di Area Ematologica.

Alla luce di quanto esposto sopra, è evidente come siano tantissimi gli aspetti che differenziano l’Ematologia dagli altri ambiti clinico-assistenziali, sia in termini di patologie da trattare che di interventi da mettere in atto nei confronti di una popolazione molto particolare.

Per queste ragioni crediamo fortemente che la formazione continua per gli Infermieri di Area Ematologica non debba mai fermarsi, allo stesso modo anche i momenti divulgativi nei confronti di una popolazione che spesso non coglie in pieno quanto specifico e peculiare sia il nostro agire professionale.

 

Filippo Ingrosso e Marianna Leone

Infermieri dell’U.O. di Ematologia Adulti – C.T.A. dell’Ospedale San Gerardo di Monza

Fiducia: Sicurezza e traquillità

Fiducia: Sicurezza e traquillità

fidùcia s. f. [dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»] (pl., raro, -cie). – 1. Atteggiamento, verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità

Ebbene sì, la fiducia produce un sentimento di sicurezza e tranquillità.

Mi è stato chiesto di scrivere un articolo, da pubblicare su questo notiziario, per descrivere un po’ la mia attività in qualità di medico ematologo.

Il tema di questa edizione è la fiducia e nessun tema sarebbe stato più adeguato di questo per raccontare un po’ la mia storia.

Sono Rossella Renso, ho 34 anni appena compiuti. Sono cresciuta in un piccolo paesino vicino a Domodossola, in Piemonte. Figlia unica, sono cresciuta riempita di amore e di attenzioni, senza però troppi vizi (credo). Mia nonna mi diceva sempre “fai il dottore Rossella, che è un bel lavoro” e la mia risposta è sempre stata “ma no nonna, non farò mai il dottore!”

E invece eccomi qui… Sei anni di medicina, 5 di specializzazione e poi due anni di lavoro da specialista, possibili grazie ad un contratto come medico libero-professionista finanziato dall’associazione Luce e Vita.

In questi anni di pazienti ne ho conosciuti, mi sono imbattuta in così tante storie e vite, sono entrata letteralmente nelle case della gente (mi sono occupata anche di assistenza domiciliare, prezioso progetto sostenuto sempre dall’Associazione). Ho lavorato, ho cercato di fare il mio meglio ogni giorno, per molte più ore al giorno rispetto a quanto richiesto dal contratto.

Non è facile avere a che fare ogni giorno con la malattia e con il dolore che ne consegue, con la fatica, con la sensazione di impotenza nelle situazioni più complesse, ma la fiducia non manca mai, non deve mancare. La fiducia verso il paziente e la sua forza, la fiducia verso la scienza e la sua potenza, la fiducia nel mondo e nel suo incedere perpetuo.

Negli ultimi difficili mesi è stata ripetuta più volte la frase “andrà tutto bene”. Non è detto che vada tutto bene, anzi, a volte va tutto male e fa molto male, ma confidando nelle proprie o altrui possibilità, si genera un sentimento di sicurezza e tranquillità, di Luce e di Vita.

Sfrutto questo articolo per ringraziare pubblicamente quindi l’Associazione, che ha letteralmente permesso a me e a molti miei colleghi prima di me, di fare il mio lavoro.

Un enorme grazie a tutti coloro che la sostengono e che ripongono in noi la loro fiducia… sperando che ne scaturisca davvero un sentimento di sicurezza e tranquillità, anche nelle ore più buie.

Dott.ssa Rossella Renso
Medico Ematologo

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