Questo tumore del sangue resta un «osso duro» da combattere perché comporta remissioni temporanee seguite da ricadute nella maggioranza dei pazienti, ma grazie a nuovi farmaci si allunga di anni la sopravvivenza

Se il mieloma multiplo resta una malattia difficile da guarire definitivamente, l’obiettivo di una completa eradicazione del tumore si intravede all’orizzonte. Nuove conferme in questo senso arrivano dagli studi presentati al congresso annuale dell’American Society of Hematology (Ash), in corso a San Diego (California) che dimostrano, numeri alla mano, gli importanti progressi compiuti dalla ricerca scientifica negli ultimi anni. «Quesrta neoplasia del sangue, diagnosticata ogni anno a circa 5.600 italiani, per lo più ultra 60enni, ha visto una vera rivoluzione nelle cure con l’arrivo di molti nuovi farmaci e le aspettative di vita dei pazienti sono notevolmente migliorate — dice Paolo Corradini, presidente della Società Italiana di Ematologia (Sie) —. Con le terapie precedenti la sopravvivenza si fermava, purtroppo a pochi anni (meno di 5, in media), anche perché la malattia portava sempre o quasi a recidive, mentre ora si aggira attorno ai 7-8 anni e non di rado arriva a 10».

In particolare una ricerca, esposta durante la sessione plenaria (quella riservata alle novità di maggior rilievo) del convegno statunitense da Francesca Gay, ematologa presso la Divisione di Ematologia Universitaria dell’Ospedale Città della Salute e della Scienza di Torino, fa un passo avanti verso le speranze di guarigione, indicando come con una nuova terapia si possa ottenere la remissione in una elevata percentuale di pazienti, primo passo verso il controllo a lungo termine e l’eradicazione del tumore. 

 

Innanzitutto inquadriamo la patologia: di quali pazienti parliamo? 

«Il mieloma multiplo è una neoplasia linfoproliferativa che insorge generalmente in persone d’età superiore ai 65 anni, ma che può colpire anche pazienti più giovani – risponde Gay, che ha presentato lo studio ad Ash -. La malattia, caratterizzata dall’accumulo nel midollo osseo di cellule (plasmacellule) tumorali e nel sangue di proteine (immunoglobuline monoclonali) provoca anemia, danno alle ossa con possibile comparsa di fratture e aumento del calcio nel sangue e danno ai reni, qualora non identificata precocemente e precocemente trattata». 

Quali sono le attuali cure standard? 
«Esistono già delle terapie in grado di mandare la malattia in remissione (fino a raggiungere quella che viene definita “malattia minima residua negativa”, ovvero non identificabile con le attuali metodiche di monitoraggio) e mantenere il mieloma sotto controllo per diversi anni — spiega Gay, co-autrice principale della ricerca —. Un primo elemento discriminante nel definire l’approccio terapeutico migliore sono le condizioni cliniche del paziente. Chi ha un’età fino ai 65-70 anni e una buona funzionalità d’organo (cuore, polmone, rene, fegato) viene in genere candidato a un approccio terapeutico più intensivo, che include il trapianto di midollo osseo autologo (detto anche autotrapianto, perché le cellule vengono prelevate dal paziente stesso). Il trattamento prevede una terapia (detta di “induzione”), per indurre la remissione della malattia, costituita da quattro farmaci, seguita dal trapianto, da una successiva terapia (detta “di consolidamento”) per rinsaldare la risposta e, infine, si procede a una terapia (“di mantenimento”) a basse dosi per conservare nel tempo la risposta ottenuta. I quattro farmaci cardine inclusi nella cura standard sono un anticorpo monoclonale anti CD38 (daratumumab), un inibitore del proteasoma (bortezomib), un immunomodulante (talidomide) e uno steroide (desametasone). Questi farmaci colpiscono diversi meccanismi necessari alla sopravvivenza della cellula tumorale».

Qual è il problema che si cerca di risolvere con il nuovo studio? 
« Questo studio è volto a valutare l’efficacia e la sicurezza di una nuova terapia di “induzione” e “consolidamento” in pazienti con mieloma multiplo di nuovo riscontro (cioè non pretrattati) e considerati eleggibili per il trapianto di midollo autologo — illustra la ricercatrice —. La terapia consiste sempre in quattro farmaci, che appartengono alle quattro classi cardine: un anticorpo monoclonale anti CD38 (isatuximab), un inibitore del proteasoma di seconda generazione (carfilzomib), un immunomodulante di seconda generazione (lenalidomide) e uno steroide (desametasone). È una nuova associazione di medicinali con l’obiettivo di valutare il tasso di malattia residua minima negativa (ovvero l’assenza di cellule tumorali identificate con le attuali metodiche di monitoraggio) ottenuto con il mix innovativo».

A quali conclusioni siete arrivati?
«Si tratta di una sperimentazione di fase tre (l’ultima prima dell’approvazione definitiva di una nuova cura) condotta nell’ambito dell’European Myeloma Network, che ha coinvolto più Centri europei e ha arruolato 302 pazienti. I risultati mostrano come nel 77% dei pazienti che hanno ricevuto il nuovo mix (isatuximab-carfilzomib-lenalidomide-desametasone) pre e post trapianto non si evidenzino cellule tumorali a livelli midollare (malattia minima residua negativa) a un anno circa dall’inizio della terapia. Inoltre l’efficacia si mantiene in diversi sottogruppi di malati, inclusi quelli con malattia più aggressiva. Il trial confronta direttamente questo regime a quattro farmaci con uno a tre (carfilzomib, lenalidomide e desametasone), che si è già mostrato altamente efficace. La combinazione a quattro farmaci aumenta significativamente il tasso di malattia residua minima negativa rispetto a quella a tre, senza un significativo aumento delle tossicità».

Perché è importante?
«È un regime innovativo perché utilizza quattro farmaci non ancora approvati per il trattamento di pazienti con mieloma multiplo di nuova diagnosi (ma già impiegati, con diverse associazioni, nel trattamento dei malati con neoplasia recidivata). Lo studio mostra dati molto promettenti perché riesce a raggiungere tassi di “malattia minima residua” molto elevati, in pratica arriva a eliminare tutte le cellule cancerose, con effetti collaterali ben tollerati. Sebbene sia troppo presto per trarre conclusioni relative alla durata della remissione e all’aumento della sopravvivenza, l’ottenimento della malattia residua minima negativa è considerato uno dei più forti fattori prognostici positivi per i pazienti».


Fonte “Corriere Delle Sera”
Autrice “Vera Martinella”